i Rudi, la recensione di “Fuori Tempo Massimo”

I rudi, band milanese che nel 2019 ha dato vita all'album "Fuori Tempo Massimo"

Deviamo per un attimo il nostro focus dai ritmi in levare per recensire il nuovo lavoro di un power-trio per molti versi affine e imparentato al nostro immaginario di riferimento, i Rudi.

Dalla periferia milanese, operai instancabili della scena musicale mod, beat e ska italiana, sono tornati con il secondo long playing, Fuori Tempo Massimo, a distanza di quattro anni dall’esordio.

Autoironici già a partire dal titolo e dall’artwork di copertina, fanno però sul serio dal punto di vista artistico e lirico. Il pop cristallino dei fratelli Bernardi Silvio (basso e voce) e Gabriele (hammond) e Stefano De Niglio (batteria) trae linfa dall’immaginario sixties e sa rinnovarlo e declinarlo in maniera personale e coraggiosa. Basti pensare alla scelta programmatica, inconsueta ma vincente, di non avere la chitarra in organico e affidare allo sferragliare delle dita sugli 88 tasti il ruolo da protagonista.

Copertina del secondo disco de i Rudi, "Fuori Tempo Massimo"

I nove brani che compongono il lavoro de i Rudi ci riportano alla mente le armonizzazioni vocali del brit pop, il rhythm’n’blues pulsante dei Prisoners, gli Housemartins, gli Squires o, scavando a ritroso nel tempo, band di culto come Artwoods e Yardbirds e, prima ancora, Georgie Fame. La scelta di cantare in italiano, poi, riconduce il tutto alla gloriosa stagione del beat nostrano, specie nei testi sempre in bilico tra il ribellismo scanzonato e adolescenziale e lo scherno nei confronti di cliché e vita rouitinaria.

Un buonissimo disco che conferma quanto di interessante i Rudi avevano proposto nel primo album, continuando a divertirsi ed esaltarsi con il gran groove impastato dal combo basso-hammond-batteria, consolidando il proprio nome come uno dei più freschi e originali del sottobosco modernista italiano.

Rispondi