I sound system sono una richiamo costante nella cultura afro-caraibica: una manifestazione collettiva che è locale, in quanto espressione dello specifico folklore comunitario, e allo stesso tempo universale, come universale è stata la diaspora africana.
Nati alla metà del XX secolo in Giamaica e concepiti principalmente come mezzo d’intrattenimento, i sound system hanno rivelato sin da subito la propria rilevanza come agenti di autodeterminazione educativa, assumendo in particolare la funzione di mezzi di socializzazione spontanea, di condivisione di valori comuni e, per conseguenza, di resistenza culturale.
In Colombia, ancora negli anni ’60 – come d’altronde in tutti i Paesi del Centro e Sud America, coloniali o ex-coloniali – era netta la distanza sociale che separava gli eventi pubblici appannaggio dei ceti benestanti, caratterizzati dalla ricerca di rispettabilità e musicalmente dominati dal tango, dal cha-cha e dai balli di origine bianca, dai luoghi di socializzazione della classe lavoratrice, ossia i negozi di alcolici, le sale da biliardo e i bordelli, nei quali risuonavano i ritmi stridenti del porro, della cumbia e del vallenato.
Inoltre, erano frequenti le manifestazioni pubbliche, durate fino agli anni ‘70, specie nelle città più grandi come Medellin e Bogotà, di contrasto a questi ritmi considerati animaleschi, erotici, sporchi, eredità di un passato schiavile che si intendeva cancellare finanche dalla memoria.
Quando irruppe in Colombia il sound system si impose nei quartieri poveri come una rivoluzione nella mentalità e un cambiamento nell’elaborazione della propria identità comunitaria. Con la crescita dell’industria discografica e la relativa accessibilità economica di singoli e album, anche in Colombia si diffuse già nei primi anni ’60 la voga delle discoteche mobili che cominciarono a essere costruite e ispirate direttamente da ciò che avveniva nella non distante Giamaica, dapprima nella costa caraibica, regione geografica ad alta densità di popolazione di discendenza africana. Centro focale di questa cultura furono i quartieri popolari delle province di Cartagena, Barranquilla e Santa Marta.
Qui i sound system furono però ribattezzati picò. Il termine sicuramente è un adattamento dalla pronuncia dell’inglese pick up, inteso o come il braccio del giradischi su cui è fissata la puntina oppure come i mezzi sui quali venivano trasportati da un luogo di festa all’altro.
A partire dall’estetica, i picò furono subito dirompenti. Anche qui gli impianti di amplificazione erano realizzati in maniera artigianale ed erano costituiti da una grande cassa acustica con enormi altoparlanti e trombe più piccole per diffondere le alte frequenze. Ma quello che a prima vista li caratterizzava, distinguendoli immediatamente dalla controparte giamaicana, erano le decorazioni ed i dipinti a colori fluorescenti, accesi, pacchiani con le rappresentazioni di eroi popolari, dai rivoluzionari ai fuorilegge, personaggi iconici del cinema, simboli di potere e figure esplicitamente politiche.
Movimento assolutamente popolare, sotterraneo e spontaneo, la cultura del picò è stata, per sua stessa costituzione, sempre in evoluzione. Da un punto di vista strettamente musicale i dj – o, meglio, i picoteros – selezionavano all’inizio dischi di son cubano, salsa portoricana, calypso del Trinidad & Tobago, ska giamaicano e, ovviamente, cumbia colombiana, ma in poco tempo si tramutarono in vere e proprie antenne di ricezione di ciò che di artisticamente eccitante veniva prodotto anche al di là dell’Atlantico. Ma non in Europa: nella Madre Africa.
Quest’elemento fu travolgente e diventò un fortissimo veicolo di fierezza e riscoperta identitaria. I dischi di stili africani come l’afrobeat, lo highlife, il soukous, il compas, la rumba congolese, il jujù, il mapalè, la chalupa e il jazz etiope inizialmente venivano importati di contrabbando dai marinai mercantili di passaggio. Dato che i vinili africani erano beni rari ed era alto il livello di competizione tra i diversi picoteros, anche in Colombia si diffuse l’usanza di raschiare via i titoli dei brani dalle etichette per mantenerne l’esclusività e quindi il pregio presso il pubblico. In questa fase e fino ai primi anni ‘80, il più importante picò era quello chiamato El Conde, considerato una vera e propria istituzione in materia di musica africana in Colombia.
In questo contesto dinamico ed eccitante e dal processo di appropriazione e rielaborazione che ne scaturì, nacque un nuovo genere musicale, la champeta, sintesi di elementi folklorici africani, indio, caraibici e colombiani.
La funzione primaria dei picò era, ovviamente, lo svago nel tempo libero, favorendo l’integrazione del vicinato e tra le famiglie attraverso la gioia del ballo, del cibo che veniva offerto e dell’alcol consumato. Allo stesso tempo queste discoteche itineranti, rimanendo al di fuori del circuito radiofonico e commerciale mainstream, riproducevano materialmente una narrazione culturale: la radice africana veniva riscoperta e si fondeva nelle danze e nei ritmi creoli, caraibici, pre-colombiani e anche europei (basti pensare all’origine tedesca della fisarmonica, strumento presentissimo nella cumbia e nel merengue).
Come in Giamaica con lo ska e poi il reggae, pure in Colombia la musica e le dinamiche sociali promosse dalla scena dei picò hanno costituito non solo un legame tangibile con il retaggio africano ma, soprattutto, una prospettiva di dignità rivolta al futuro, poiché sono stati capaci di creare una nuova cultura autoctona a partire dall’incontro e dall’amalgama di elementi culturali eterogenei, africani, afro-caraibici e indigeni.
Possiamo ben figurarci, dunque, come la scena dei picò e la champeta fossero condannate ed apertamente osteggiate dalla borghesia benpensante, che le associava – in un clima politico in costante fibrillazione nel quale viveva lo stato – alla violenza, alla delinquenza e all’emarginazione su base etnica e classista. Lo stesso termine champeta si riferisce al coltello con il quale si sgozza e si pulisce il pesce al mercato. E anche quando, negli anni ’80, le musiche popolari e tradizionali finirono per essere assimilate e normalizzate e, apparentemente, smisero di essere considerate uno stigma sociale in una logica supposta di valorizzazione patriottica, ciò non avvenne per i picò ed i picoteros. Le loro feste danzanti non rientravano ancora nel concetto di rispettabilità, dato che il ritmo era sfrontatamente africano e portatore di fierezza, i quartieri dai quali traeva linfa vitale questo movimento erano quelli periferici urbani e la sessualità non era un elemento represso ma palese nelle movenze dei ballerini e spesso nei testi dei brani.
Questo fenomeno strisciante e sotterraneo, nonostante tutto, è sopravvissuto fino ai giorni nostri nei barrios colombiani, adeguandosi ai tempi, attualizzando e aggiornando continuamente gli stili musicali proposti dai dj, senza mai dimenticare le radici della cumbia, della salsa e dell’afrobeat mantenendo così intatta la sua valenza identitaria, sociale e popolare.