Abbiamo deciso di tradurre questo vecchio, lunghissimo articolo (purtroppo abbiamo dovuto tagliarlo quasi della metà) per un semplice motivo: perché spiega tante cose che a volte riteniamo implicite, e altre che non consideriamo tout court.
Un giornalista inglese all’inizio del 1973 fece un reportage dai luoghi più significativi della scena reggae della Londra dell’epoca, sia nei quartieri neri, a più alta tensione, come era allora Notting Hill, che in quelli in cui l’integrazione era più avviata e l’atmosfera più distesa, come l’East End. Ne colse gli umori, i pareri, le sensazioni dei suoi protagonisti: non incontrò le superstar – Desmond Dekker o Jimmy Cliff si potevano vedere anche su Top Of The Pops – ma la gente comune, i giovani figli degli immigrati caraibici, ragazzi sradicati, spesso incazzati, che tramite la musica cercavano una riconnessione con la terra e la cultura dei propri genitori, gente orgogliosa, che ha lavorato sempre in silenzio, tra difficoltà e talvolta aperta ostilità. Gente a cui dobbiamo tanto.
Dal Sunday Times del 4 febbraio 1973
Sono le 3 di notte nella zona black di Londra. Hornsey Slim sta cercando un blues party per andare a ballare. Siamo a nord, tra Dalston e Stoke Newington e, incontrando un viso nero sul marciapiede, gli urla: “Ehi, amico, dove sta suonando Shelly stasera?”. Nelle prime due case in cui eravamo andati c’era il sound di qualcun altro, ed erano comunque abbastanza piene. Ma dopo un po’ sentiamo, attutito, il tonfo pesante dei bassi di un grande sound system a soli 50 metri di distanza. Avvicinandoci si aggiunge anche uno strano ronzio ritmico, che poi capiamo essere le vibrazioni delle finestre del piano di sopra.
Ci sono venti giovanotti in fila per entrare, altri cinquanta sono già dentro l’atrio o sulle scale e devi sforzarti sgomitando per varcare l’uscio, quasi come un tappo di sughero in una bottiglia. Qualcuno si assicura che ognuno paghi le sue 15 sterline. All’interno della casa non c’è arredamento. Fa caldissimo, è buio e stipato di gente. Trecento? Cinquecento persone? È difficile da dire.
La folla ha un’età piuttosto giovane, tra i 15 e i 25 anni, ogni tanto qualcuno più grande. Un autista di bus sulla quarantina, ancora in uniforme, balla con le ragazze più giovani; i bianchi in un blues party -o shebeens- sono altrettanto rari che i neri in uno del St. James Club. L’abbigliamento spazia da una sobrietà povera alle piume di pavone, ci sono tenute da lavoro fianco a fianco con luccicanti vestiti di piume. Non c’è nessuno vestito elegantemente, tranne, qua e là, una ragazza che indossa dieci sterline di accessori sembrando come se indossasse merce dal valore di milioni di dollari: è il culto dello stile.
L’amplificazione è al piano di sotto e spinge il pesante beat della musica attraverso delle casse posizionate una sopra all’altra in mucchi qua e là. Il sound pulsa attraverso le persone, mescolandole insieme come un impasto scuro e dolciastro. I maggiori sound system sono tra le trenta e le cento volte più potenti di questi impianti domestici. Ma ciò che conta non è la sua grandezza, ma l’amplificazione delle frequenze basse, in modo che suoni come la percussione più grande del mondo, finché non diventa musica che, vibrando, puoi sentire su di te. La senti nei tuoi piedi, nei tremolii di una lattina di Coca Cola con dentro qualche goccio di Scotch illegale, la senti attraverso il corpo della ragazza con cui stai ballando. La prima volta che la senti è incredibile, quasi insopportabile, oh mio Dio! Ma ti ci devi abituare. Poi diventi insensibile al fastidio, grazie a quella gioia così cool che ti dona, che è quasi un sedativo. Come ghiaccio nella spina dorsale. Non si prova dolore.
Attorno alle cinque di mattina la folla si dirada. Slim (“Sono un uomo matto, matto!”) ancora balla scatenato, raggiante, prima solo, poi con sua moglie. Il sudore gli scende sul viso. Tutti lo guardano e lo ammirano. Ma ci sono pochi sorrisi in giro, si parla poco, nessuna risata. Quando la musica finisce tutti si fermano, come quando si spegne una giostra.
Generalmente le feste caraibiche sono piene di allegria. Ti lasciano addosso una sottile gioia, strappata, talvolta, alla tua disperazione quotidiana. Il ritmo caldo, il ballo, il solo parteciparci, il muoversi insieme per stare bene. Ballando un pezzo di Don Drummond, proprio mentre Somerleyton Road a Brixton è spalancata, con uno shebeen in ogni altro seminterrato. “E ci sono anche ragazze bianche! Credi, amico, a quello che ti sto dicendo!”. È la musica della gente lontana dalla propria terra, intrappolata in una fredda madrepatria. “Suppliamo a ciò di cui il nostro cuore ha bisogno”, ha scritto Edward Brathwaite in Rights of Passage, “Scuotendo i fianchi e muovendo i piedi nella danza.”
Ma stasera c’è una generazione differente: giovani, neri ma inglesi. Chi è immigrato ha un passato, quindi l’implicita possibilità di un futuro; per i loro figli esiste solo il presente. Andare a una blues dance è una fuga settimanale per i giovani, molti dei quali sono disoccupati, altri anche senza una casa. Queste sono le blues dance inglesi, che non sono né felici né tristi, ma sono come un limbo, una terra di nessuno, un intervallo tra la realtà di ieri e quella di domani. Il gusto non è quello della celebrazione, ma quello della fuga, del rifugio. E, ciò che è peggio, il rifugio non è neanche tanto più sicuro. La disperazione della vita quotidiana è penetrata dentro come la nebbia che entra attraverso i vetri rotti delle finestre.
Mi sento come se stessi raccontando un mondo per cancellare il quale è stata costruita tutta questa scena, oltretutto evidenza della stessa incapacità di poterlo fare.
Tra l’alba e le otto di mattina, le ombre della notte si diradano. Gli ultimi che erano rimasti alla festa se ne vanno, la luce è quasi fastidiosa per i loro occhi. I loro accessori di piume tornano pacchiani sui marciapiedi della domenica mattina dell’Inghilterra bianca. Sembrano quasi rinsecchirsi, perdere equilibrio, grazia e stile, fino a scomparire.
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“Amore elettrico armato!” è scritto su un muro di Notting Hill. La guerriglia urbana della controcultura colpisce ancora. Lontano da questa, The King sta costruendo la sua arma segreta: quattro amplificatori da mille watt e venti speaker, ciascuno grande un metro e venti quadrato. I soundman aspirano a suonare i loro dischi sugli amplificatori più grandi, che costano circa una sterlina a watt.
Lui sta frugando tra le sue cose in un baule di fòrmica color marmo, posando manciate di dischi sul letto. I titoli sono stati raschiati via dalle etichette. Un ragazzo, all’interno di un gruppetto che guarda ammirato e in silenzio, cerca di intuirne i titoli. Ne indovina la metà. The King, invece, li conosce tutti. Gli spiego che voglio chiacchierare con lui perché so che è uno dei migliori soundman. “Uno dei migliori?”, esplode incredulo un suo seguace, “Lui è il top, è il più grande, amico! E’ il sound che domina!”
The King, essendosi scaldato, si concede a qualche parola. “Guarda, nota tutte quelle band formate da ragazzi bianchi che cercano di suonare reggae: non ci riescono. Devi avere dentro quel fortissimo sentimento, ma è un sentimento che deve esserti nato dentro. Quel sentimento ti viene trasmesso con il latte materno, amico. È vero! Ascolta, è il latte naturale che proviene dal seno di tua madre. Solo quello ti può dare quel…quel…quel senso di saldezza nel corpo e quell’emozione che ti serve a creare ciò che vuoi creare. E nessun altro nero nel mondo può suonare il reggae tranne che il nero nato e cresciuto in Giamaica.”
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“Fallo bruciare, fallo bruciare, fallo bruciare! Sangue, sangue, sangue, sangue e fuoco! Occhio per occhio, dente per dente! Urlano i nullatenenti”. Sono il sound Ethiopian Cooling Station, mentre bevono Red Stripe, durante una serata chiamata “Grandpa Joint No. 2”, nel Mutt and Jeff Pub.
“Sulle fredde colline suburbane i ricchi rabbrividirono nelle loro ville. Si mormorava nelle loro terrazze che fossero pronte severe punizioni per loro da parte dei creatori di musica e caos. Impiccagioni pubbliche, castrazione per gli stupratori, taglio delle mani per i ladri. La musica rimbombava tra Trench Town e Beverly Hills, esplodendo dai sound system, dai negozi di dischi, dai jukeboxe, come tamburi di guerra”.
Le liriche si facevano sempre più spaventose: “Il giorno del giudizio si avvicina! Dove andrai a nasconderti? Brucia Babilonia!”. La musica era diventata minacciosa, pesante, incuteva terrore. “Ma negli hotel eleganti, nel Courtfield Manor o nel Jonkanoo Lounge dello Sheraton di Kingston, i ricchi uomini d’affari statunitensi rapivano le ragazze dalla pelle nera. E noi stavamo ballando. Era come se Belgravia danzasse con un disco dei Clysiders che cantano Bandiera Rossa.”
In Giamaica la musica e la politica si erano fuse ed erano riuscite a rovesciare il governo. Le elezioni giamaicane dello scorso anno, secondo un giornalista politico del Daily Gleaner, erano state vinte dal reggae. Michael Manley, leader del People’s National Party, partito che stava all’opposizione, aveva chiamato il cantante e produttore Clancy Eccles per sostenere la sua campagna elettorale, dato che Eccles aveva fatto incursione nelle classifiche pop. Better Must Come di Delroy Wilson, un pezzo con un beat accattivante, era divenuto l’inno del partito. E nelle sua canzone Rod of Correction (“Picchiali con la verga della correzione, Padre, dai fuoco a Sodoma e Gomorra!”), Clancy Eccles sostituì il nome del Primo Ministro, Hugh Shearer, nel verso “L’esercito del Re Faraone è stato sconfitto”.
Mescolate alle urla in patois dei dj più politicizzati, le parole e i ritmi dell’apocalisse e della redenzione erano esplosi in tutta la Giamaica: Power for the People, Freedom Street, Let the Power Fall, Beat Down Babylon. Trentotto spettacoli, folle di trentamila persone, un ritmo potente, la voglia di moralità che arrivava a confondere Manley con il Redentore, amplificatori da mille watt che ruggivano contro Babilonia. Disperato, Shearer mise al bando le canzoni politiche o dei rasta dalle radio, ma erano i sound system e i jukebox che le diffondevano fino ai villaggi più piccoli.
Il PNP vinse le elezioni in modo schiacciante. Clancy Eccles annunciò il Primo Ministro “Michael” ed i musicisti si sentivano al settimo cielo. “Sapevamo di essere più popolari dei politici”, dice Eccles, “perché la gente ci ascoltava per radio ogni giorno. Ma se Michael in qualsiasi momento iniziasse a sbagliare non credo che gli faremo sconti, colpiremo anche lui!”.
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L’East End è diverso. C’è un diverso rapporto tra neri e bianchi. Lo puoi percepire al mercato di Dalston, non è come a Brixton o a Shepherd’s Bush. Non è una forma di tolleranza liberale, che in realtà non è sempre nemmeno gradita. È rispetto basato su simili valori: la famiglia, la forza, il calore estroverso.
Nel biennio 1968-69 una nuova generazione di Cockney neri stava per diventare la nuova trend setter dell’East End. Nel calcio giocato in strada loro erano fermi, in piedi ai lati, contavano i goal, prendevano la decisione finale durante le liti. Era un tempo in cui ciò che veniva spacciato per musica pop in realtà poteva anche essere stato confuso per Beethoven. La musica underground, al prezzo di due sterline ad album, offriva eroi “freak” ed effeminati che era difficile da ammirare. E, infatti, non si affermò nella Mile End Road. Nei club, i ragazzi neri avevano ciò che volevano le ragazze: non a-sessualità ma stile, sicurezza di sé e musica che si poteva ballare. Da questa equazione nacquero gli skinhead, i rude boy bianchi di Londra: la loro musica era il reggae.
Era una strana situazione, perché ragazzi neri e bianchi insieme in quella maniera così disinvolta, come accadeva nei club e nelle discoteche di Londra, non si vedevano con facilità non solo in Inghilterra, ma forse in nessun altra parte del mondo. Sembra possibile addirittura usare parole come integrazione. Ma grazie agli adulti, ciò non poté durare.
La società inglese ha sempre reagito con paranoia ai gruppi di teenager della working class che seguivano uno stile uniforme nell’abbigliamento, dai teddy boy ai mod, dai rocker agli skinhead. Li ha sempre etichettati col marchio di delinquenti, con campagne allarmistiche per assicurarsi, attraverso i ragazzi che poi ne imitavano le gesta, che la narrazione paventata poi si avverasse. Le violenze contro i pakistani facevano parte di questa strategia già vista. Infatti, hanno iniziato ad attrarre l’attenzione della stampa solo quando svolte da una minoranza facilmente identificabile. Una volta portate sotto i riflettori dai media, molti teenager dell’East End non poterono svestirsi dal look skinhead abbastanza velocemente. E, mentre le Midlands e Manchester si precipitavano ad acquistare anfibi bordeaux e camicie Ben Sherman, giù a Bethnal Green potevi vedere i capelli ricrescere.
Quello che seguì fu la Grande Guerra del Reggae a Londra. I ragazzi neri furono attratti dai club. Essendosi battuti per anni con i locali perché li lasciassero entrare, avevano viaggiato ovunque per tutta Londra per seguire la musica giusta. Arrivavano in venti, trenta, anche cento alla volta. Alcuni gestori di locali che prima rimanevano mezzi vuoti iniziarono ad esserne soddisfatti. Ma il vicinato cominciò a non esserlo affatto. La polizia a volte sorvegliava alcuni club o discoteche all’ora di chiusura; e, prevedibilmente, succedeva sempre qualcosa. I ragazzi bianchi, che facevano gli spavaldi quando superavano i neri di due terzi, a un certo punto si trovarono in minoranza numerica: e se scoppiava una rissa o fuggivano o chiamavano rinforzi armati. L’idillio dei club musicali durò all’incirca nove mesi. I ragazzi neri iniziarono a frequentare un sempre decrescente numero di club che suonavano la loro musica, con l’accompagnamento, però, di scontri, di vicini che si lamentavano e di incontri frenetici. Al che la maggior parte dei club gettò i dischi di reggae nell’immondizia. Ritornò la segregazione.
Ma gli skinhead cambiarono qualcosa nel frattempo. Attorno alla primavera del 1971 potevi vedere i ragazzi della Mile End Mob nella Sloopy’s Disco o all’A-Train, che indossavano abiti ispirati dallo stile dei giamaicani, con i soprabiti lunghi, una moda ripresa anche dai ragazzi di Brixton e tradotta poi nel crombie, e cappelli con la tesa stretta. Ballavano, un po’ esitanti, su dei pezzi di reggae o di soul americano con liriche come “Ritorno in Africa perché sono nero”. Questi giovani bianchi appassionati di reggae erano un fenomeno piacevolmente ironico, ricordando le generazioni di caraibici costretti dalle insegnanti a scuola a cantare che “I britannici non saranno mai schiavi”.
Una volta, nel 1971, uno dei guru dell’Inghilterra pop mi disse che anche se nessun ragazzo bianco aveva mai ascoltato James Brown, questi era troppo forte. Un mese dopo al concerto di James Brown all’Albert Hall la folla era composta al 60% di ragazzi bianchi. I ragazzi neri ascoltavano in modo composto, mentre gli ex-skinhead saltavano su e giù e ballavano nei corridoi, per poi precipitarsi sul bus per non perdersi neanche il suo secondo show nell’East End.
Oggi, una minoranza devota di ragazzi bianchi di estrazione popolare gira nei negozi di dischi a Brixton a caccia di reggae. E al Tiffany, come è stato rinominato in modo astuto il Mecca, la sala da ballo di Ilford, non ci sono visi neri in vista. Ma sbirciando tra le palme di plastica del balcone, si possono notare gambe che hanno imparato a muoversi con un ritmo differente, seguendo il tempo delle percussioni. Il dj fa suonare due pezzi di Otis Redding e poi uno di James Brown. “E stiamo proprio bene qui tutti insieme, siamo tante sex machine stanotte.”