Intervista a Sergio Rallo (Skabadip), “profeta” dello ska italiano

Sergio Rallo, figura chiave di Skabadip, insieme a Prince Buster

Ci sono vari modi per contribuire alla crescita di un genere musicale. Lo si può fare imbracciando una chitarra, cantando, fondando un’etichetta e così via. Pochi però attribuiscono la giusta importanza a chi si occupa di musica scrivendone. Per quanto riguarda la musica ska in Italia la figura di Sergio Rallo è centrale in questo senso. Attraverso la sua illuminante attività per Skabadip, il più importante sito italiano dedicato al genere, Sergio, insieme ad Alessandro Melazzini, ha contribuito in modo determinante al diffondersi dello ska nel nostro paese. La versione originale di Skabadip ha chiuso nel 2005, dal 2005 al 2008 il sito ha proseguito con un nuovo dominio, chiudendo poi in modo definitivo. Il patrimonio di Skabadip è ancora disponibile a questo (prima versione, 1998-2005) e questo link (seconda versione, 2005-2008).

Intervistare Sergio Rallo è stato per me un vero onore, considerato che il sito che state leggendo è stato anche influenzato dagli articoli scritti ormai tanti anni fa per quel leggendario sito che era Skabadip. Il risultato è stato un’intervista interessantissima, ricca di aneddoti e contenuti dall’incredibile valore aggiunto.

Vorrei cominciare parlando di Internet, visto che Skabadip è nato tra il 1997 e il 1998. Che cosa si prova nel sapere d’essere stati, ancora prima che il più importante sito sullo ska nel nostro paese, l’avanguardia dell’internet italiano “underground”? Da dove venivano le vostre competenze?

Cosa si prova? Direi una forma di orgoglioso piacere misto a una gradevole nostalgia. Piacere nel constatare che quella che per me fu una divertente attività ludica – seppur chiaramente dettata dallo scopo programmatico di Skabadip, ovvero il genuino intento culturale di diffondere lo Ska – è effettivamente servita allo scopo di avvicinare tantissime persone in tutta Italia alla nostra musica prediletta, a fornir loro informazioni utili sui gruppi, i concerti, le fanzine, i negozi, le mode, i sottogeneri, insomma quasi tutto. Quanto alla nostalgia, che te lo dico a fare, è stato uno dei periodi più divertenti e spensierati della mia vita, vorrei ben vedere che non avessi nostalgia dei miei vent’anni. Naturalmente il merito di essersi accorto che mancava qualcosa del genere nell’allora “pionieristico” www. va ascritto esclusivamente al mio (all’epoca non ancora) amico Alessandro Melazzini, in quell’anno un poco più che ventenne e brillante studente alla Bocconi di Milano ma già con una profonda conoscenza del web e del linguaggio HTML. Senza il vulcanico Alessandro, che mi venne a “reclutare” dopo un brillante concerto del mio gruppo in un locale proprio vicino all’Università Bocconi (lo Stella Alpina, lo ricordo ai miei coetanei) parlandomi del progetto di Skabadip per il quale necessitava di contenuti, il mio contributo alla musica Ska sarebbe probabilmente rimasto limitato all’attività col mio gruppo the SmartS e alla mia presenza ai concerti degli altri gruppi. È buffo per me oggi constatare che, in effetti, le mie competenze specifiche di “storico” e recensore principale per Skabadip derivavano proprio dalla mancanza di un sito come Skabadip. La curiosità, la necessità di sapere come, da dove e perché era nato un genere che mi aveva sempre attratto sin da bambino, mi induceva nei primi anni della mia personale “febbre ska” (iniziata nel lontanissimo 1988 con i Madness) a ricercare dischi e informazioni sul genere, compulsando avidamente ogni riga scritta su ogni album o cd, confrontando sempre (quando indicati) i musicisti accreditati tra un album e l’altro. Essenziali sono state le note di accompagnamento di tanti dischi della Trojan che, però, raramente sono state dettagliate e complete come quella della bellissima serie Jamaican Gold redatte da Dr. Buster Dynamite (l’olandese Aad van der Hoek) e il partecipare a tutti i concerti possibili cogliendo quasi sempre l’occasione di fare quattro chiacchiere con l’artista di turno. Il resto della mia competenza era costituita dalla mia piuttosto varia cultura musicale (pop, soul, blues, jazz) e dal mio interesse per l’evoluzione della Musica nei vari generi (che è, a mio avviso, una delle storie più interessanti delle vicende umane) e, infine, dall’essere io il cantante dei citati the SmartS con cui all’epoca dell’esordio di Skabadip avevo già fatto un nutrito numero di concerti con uno stile tra ska/jazz e two tone.

Quando, un paio d’anni fa, intervistai il tuo collega di Skabadip Alessandro Melazzini, mi consigliò di cercarti, definendoti “profeta” dello ska. Perché? Da dove vengono la tua passione e la tua conoscenza?

Il mio assurgere al ruolo che io ho sempre sentito essere di grande responsabilità e cioè addirittura di “Profeta” dello Ska origina dal mio primario ruolo di attivo divulgatore del “Verbo Ska”. Il mio fine era il proselitismo in levare, il sermone a scacchi bianchi e neri, il catechismo coi dreadlocks e la messa in bretelle e Dr. Marten’s! Solo un gioco, quindi, e nulla di serio negli intenti religiosi ma, a ben vedere, avevo una certa capacità di predizione effettiva: predissi infatti al mio amico Gigi “T-Bone” De Gaspari, che apriva nel – mi pare – 1998 un concerto dei Bluebeaters con la sua band di allora, che quando i BB lo avessero sentito suonare gli avrebbero chiesto di far parte del gruppo, come di fatto accadde per tanti anni a seguire, e “predissi” pure il successo dello Ska tradizionale e dello Ska Jazz agli inizi degli anni ’90, previsione quest’ultima che trovò la sua miglior conferma con l’invito dei Tokyo Ska Paradise Orchestra al Festival di Montreux una decina di anni fa. La verità, a essere onesti, è che prevedere che una musica splendida e divertente come quella suonata dai vari Hepcat, Jump With Joey, New York Ska Jazz Ensamble, giusto per citare i primi che mi vengono in mente, avrebbe fatto tornare alla grande sul palcoscenico mondiale la musica Ska (e, in parte, a far ballare di nuovo il jazz, seppur ska/jazz), era decisamente una previsione facile-facile.

Per Skabadip sei autore di quello che io considero come il più bell’articolo mai scritto sullo ska in Italia. Quest’articolo è una divertente intervista andata male che, proprio per questo, riesce a regalare un punto di vista inedito su un personaggio molto particolare. Sto parlando, ovviamente, della non-intervista a King Stitt. Puoi dirmi qualcosa in più?

Sì, posso dirti che non ho mai capito perché nell’articolo di Skabadip c’è una foto di Channel 1 invece che di Studio 1! Scherzo, ho approfittato per rileggere l’articolo e ricordarmi che quel giorno gli studi di Channel 1 erano proprio chiusi e non trovai nessuno con cui parlare, mentre in quelli di Studio 1 stavano registrando e venne fuori per caso che l’immobile adiacente era la casa di Mr. Winston “King Stitt/The Ugly One” Sparks. Fu un incontro del tutto fortuito, uno dei tanti in quel mio unico viaggio in Giamaica. In ogni caso sono pentito di non essermi presentato al suo cospetto con una bottiglia di rum, sono sicuro che le cose sarebbero andate diversamente! E, sì, in effetti l’articolo è divertente a cominciare dal sottotitolo: “Sergio (non) incontra King Stitt” e le tue gentili parole a riguardo valgono per me come una medaglia al valore.

» Leggi la storica “non intervista” di Sergio Rallo a King Stitt

Se non sbaglio quell’intervista per Skabadip si inseriva all’interno di un tuo “tour” giamaicano. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

Mi è rimasto tanto, perché volevo – anzi, dovevo – cogliere odori, profumi, sapori, rumori e atmosfera dei luoghi in cui ha cominciato a pulsare la musica che amo. Al di la dei numerosi incontri musicali insperati come quello con Prince Buster davanti al suo negozio in Orange Street (foto in copertina), con Winston Jarrett (uno dei “The Flames” di Alton Ellis poi ottimo solista), Derrick Harriott, Winston Riley (entrambi nei loro negozi di dischi) e per finire con Charley Anderson dei Selecter (nel B&B di sua proprietà nel quale, a Negril, passai i successivi quindici giorni, sempre per purissimo caso), fu proprio Kingston a lasciarmi stupefatto nel corso della settimana che ci passai. Bellissima fu la lunga passeggiata di svariati chilometri che io e i miei due compagni di ventura affrontammo in una giornata splendente, partendo da Downtown Kingston dove inizia Orange Street, fino al negozio di Prince Buster. La musica che proveniva da ogni dove, il continuo brulicare di gente indaffarata soprattutto nelle primissime ore della mattina per evitare la canicola, con negozi e negozietti e bancarelle improvvisate. E poi la turbinante “stazione degli autobus” dalla quale partii alla volta di Negril che era un grande parcheggio dove senza alcun apparente ordine decine e decine di piccoli pulmini partivano per varie direzioni riuscendo (secondo me solo per divino intervento di Jah Ras Tafari in persona) a non urtarsi, tra nuvole di polvere, colpi di clacson, voci e aromi di ganja che bruciava e con la colonna sonora di un potente strumentale reggae che proveniva da qualche dove. Altre cose ancora vivissime nella mia memoria più profonda, perché legate al gusto, sono il meraviglioso, piccantissimo jerk chicken e le banane di una delizia tale che o le mangi lì o non capirai mai quanto sono buone. Pesci e aragoste dell’Atlantico, invece, fidati, meglio quelle del Mediterraneo senza se e senza ma.

Sergio Rallo di Skabadip con Winston Jarrett

Sergio Rallo con Winston Jarrett, foto di Marco Carloni

Di interviste per Skabadip mi pare tu ne abbia fatte molteplici. Laurel Aitken, per dirne una. Se ti va accennaci a qualcuno dei tuoi incontri più interessanti.

A rivederle le interviste per Skabadip sono parecchie, e tantissimi gli aneddoti divertenti. Giusto perché lo hai citato tu, Laurel Aitken mi sorprese nell’attento esame che fece della mia copia di un suo LP storico (High Priest of Reggae) per vedere se era un originale o una ristampa piratata prima di autografarla (se non fosse stato originale non lo avrebbe mai e poi mai siglato!) e per il suo stile morigerato: niente fumo, niente alcool; il meraviglioso cantante Dave Barker (Dave & Ansel Collins), invece, mi sorprese per quanto tenesse al fitness e alla vita sana oltre che per la sua straordinaria voce e la sua risolutezza nel far reiniziare un pezzo la cui partenza era stata palesemente “ciccata” dalla band che l’accompagnava. Di certo posso annoverare più incontri interessanti che interviste effettivamente fatte e quegli incontri sono legati a emozioni ben precise, istanti scolpiti nella mente, come l’amichevole cordialità e disponibilità mostrata da Prince Buster, “Skully” Simms che dice che il ritmo dello ska è magico e continuerà a piacermi per sempre perché “Ska is the most terrific rhythm of them all”; l’aria ascetica di Leonard Dillon (The Ethiopians) nel rispondere alle mie domande, la frizzante allegria e giocosità di Mark Foggo; le mani di puro cuoio così forgiate dalle corde del contrabbasso di Lloyd Brevett, l’orgoglio di Roland Alphonso nello spiegarmi cosa significava quel “O.D.” che scrisse dopo il suo nome su un album, oh mamma! Mi rendo conto che potrei andare avanti parecchio e mi fermo qua.

Sei un appassionato di ska ormai da un po’ di anni. È inevitabile, pur senza nessun obiettivo nostalgico, chiederti come, secondo te, son cambiate le cose. Che differenza vedi tra la scena ska attuale e quella che vivevi da giovanissimo scrittore di Skabadip vent’anni fa?

Ne è passata tanta di acqua sotto i ponti, giusto trenta anni. Quando per l’estate del 1988 volli crearmi una nuova “colonna sonora” (leggasi “Registrare su cassetta gli LP e i 45”) per le vacanze estive, dello Ska sapevo solo che era la musica fatta da certi gruppi inglesi e che erano andati di moda tra i ragazzi che avevano 7/8 anni in più di me. Mi ricordavo i Madness in particolare (le cui canzoni preciso che si sentirono in radio e vennero ballate in discoteca fino alla metà anni 80) e i Bad Manners per averli visti in televisione (l’ospitata a Sanremo che recentemente hai pubblicato su queste pagine la vidi davanti alla tv!), i loro videoclip venivano messi trasmessi da DeeJay Television. Il genere era inoltre “imitato” anche da italiani come la Rettore di cui pure mi ero innamorato, non tanto per la canzone Donatella di cui conservo ancora il 45, ma per le gambe. In ogni caso, per tanti anni a seguire e per buona parte degli anni ’90, la reazione dell’interlocutore alla mie parole “musica Ska” era usualmente una faccia interrogativa seguita dalla domanda “Musica…che?”. Con tante situazioni surreali tipo “Ah, la musica dei nazi…”; oppure situazioni più antipatiche e irritanti come quando a seguito della mia puntuale risposta mi veniva addirittura spiegato con sufficienza: “Guarda che ti sbagli la musica Ska è un derivato del Reggae e del Punk mischiati insieme…”. Capisci? A me “il Profeta”, è già tanto che non li abbia inceneriti tutti! Erano tempi in cui eravamo sicuramente non in tanti a sapere che oltre il nostro confine c’era una intera scena musicale della cosiddetta terza ondata dello Ska (1989/1992) che stava allargandosi a macchia di leopardo in vari parti del mondo. A Milano eravamo indubbiamente privilegiati per una scena underground che vedeva i Casino Royale avere un grande successo di pubblico con concerti che erano veri e propri eventi e per una serie di negozi dove eri sicuro di reperire vinili e cd dei generi più assurdi e disparati e a questo proposito ricordo con grande nostalgia luoghi di culto come New Zabiskie Point e Psycho e il Banco 31 di Vito War alla fiera di Senigallia. Oggi, lo Ska è un genere ormai conosciuto da (quasi) tutti, “sdoganato” dalle grandi case discografiche e dai grandi artisti che in tanti ne hanno proposto la loro versione. Si sente nella pubblicità e nelle colonne sonore dei film (a rimarcare il cambio generazionale in certi luoghi di lavoro) anche se devo ammettere che la frammentazione, che dico, la vera e propria atomizzazione in una cascata di sottogeneri sin dagli inizi degli anni 90, può far incorrere alcuni in errore e far ancora oggi pensare che lo Ska sia lo Ska/Core o lo Ska/Punk più tirato a sua volta mischiato con le più assurde influenze tipo l’HM. Ecco, a mio avviso, a quei livelli di velocità, la natura “ondeggiante e rotolante” tipica del ritmo ska/reggae si perde per diventare puramente un sottogenere dell’HC o del Rock, insomma, una cosa di altra natura. I gruppi “ska” di oggi, a differenza di quelli della fine degli anni Ottanta la cui influenza principale era di fatto il Two Tone, si nutrono a piene mani da praticamente tutta la tradizione musicale giamaicana dagli anni ’50 fino agli anni ’80. Naturalmente anche il “Two Tone”, oggi come oggi, dopo quasi quarant’anni, è entrato pienamente nella tradizione imprescindibile del nostro genere eletto e per alcuni è stata e rimane la principale ispirazione (vedi per esempio Mr. Review, Blaster Master, The Busters, Liberator, Skarface) ma tanti ottimi gruppi negli ultimi quindici anni sono diventati molto “specializzati” dedicandosi esclusivamente ai sottogeneri di diretta derivazione giamaicana/inglese e facendone la propria “cifra” come il cosiddetto Early Reggae/Skinhead Reggae (vedi gli spagnoli Los Granadians o i fantastici Aggrolites di Jesse Wagner), o solo Rocksteady in riuscitissime “imitazioni” dello stile dello Studio One (vedi The Frightnrs), o solo ska jazz (come gli ottimi Eastern Standard Time) che alle volte diventa piuttosto “jazz/ska” (come l’esaltante lavoro della super big band Western Standard Time Ska Orchestra caratterizzato da arrangiamenti che tolgono il fiato) o solo Dub, e in certi casi dedicandosi pure al Mento/Calypso e allo Shuffle/Boogie precedente alla vera e propria nascita dello Ska come stanno facendo con grande successo gli italianissimi Uppertones. La cosa che chiunque della mia età ha, credo, apprezzato di più nel corso degli ultimi venti anni è sicuramente il fatto che lo Ska sia stato abbracciato da quasi tutti gli appassionati di buona musica “nera”, di Soul, di R&B, di Funk e di Jazz e lo dimostra lo sproposito di dee jay che si sono affermati proponendo meravigliose scalette dove lo Ska e tutti i suoi derivati si mischiano perfettamente con tutti gli altri generi caldi e suadenti. Un grande merito va a mio parere sicuramente attribuito in parte alle lussuose raccolte della inglese Soul Jazz Records (che ha reso popolari i ritmi e melodie di Studio One presso i medesimi ambienti che ascoltavano Acid Jazz, easy listening o musica lounge) e in parte al successo planetario di un’artista meravigliosa come Amy Winehouse e che, lo confesso, ancora mi manca tanto.

E rispetto alla Giamaica di ieri e di oggi?

La Giamaica di oggi la conosco solo dalle cronache. Mi informo sempre grazie alle edizioni on line del Jamaica Observer e del Jamaica Gleaner, lo faccio non certo per la cronaca politica o criminale ma, ovviamente, per le notizie sui musicisti. Credo comunque che la situazione sociale nella magnifica isola sia solo peggiorata. Quando ci andai io nel 1996 la Giamaica, piuttosto che la terra di Bob Marley dove ci si fuma allegramente qualche “torcione” ascoltando reggae e calypso, era già la principale centrale di spaccio di cocaina dal Sudamerica agli Stati Uniti e a numero di omicidi era nei primi mesi di quell’anno il secondo paese del continente. Oggi credo si siano aggiunte anche orrende droghe sintetiche e il fatto che luoghi super turistici come Montego Bay abbiano contato solo nel 2017 più di 330 morti ammazzati e che a inizio del 2018 i turisti siano stati invitati a non uscire dai resort per le sparatorie col Governo costretto a dichiarare per la città lo stato di emergenza, indica che le cose, gradatamente e inesorabilmente, peggiorano. Musicalmente, invece, posso dirti grazie al fatto che tramite Facebook sono in contatto con alcuni oriundi, profondi conoscitori della musica tradizionale giamaicana, che sono proprio loro i primi a crucciarsi che la tradizione sia tenuta ben poco in considerazione dai loro giovani. Infatti, pur essendo le basi musicali ancora oggi insegnate alla Alpha Boys School, i giovani sono invece completamente assorbiti dal mondo digitale ed elettronico pesantemente influenzato dall’hip hop americano e dallo stile “gangsta”, col risultato che i citati storici e appassionati giamaicani guardano con grande “invidia” al resto del mondo dove praticamente in quasi ogni nazione (fanno eccezione paesi a maggioranza mussulmana e quasi tutta l’Africa, salvo il Sudafrica) ci sono validissimi gruppi ska/reggae che mantengono viva una tradizione che nel luogo di origine è riservata a vere e proprie nicchie.

Per me è impossibile distaccare lo ska dall’immaginario sottoculturale, non perché debba essere così necessariamente, ma perché è il modo in cui l’ho vissuto io. Per te com’è stato? Come vedi questo “feeling” e qual’è il filone ska che preferisci?

È come dici tu anche per me. Trovo che ci sia qualcosa di attraente in tutta la (sotto) cultura (e lo scrivo così per sottolineare proprio che in realtà, sotto o sopra, sempre di “cultura” si tratta) legata alla nostra musica. Preciso che non sono mai stato un simpatizzante dei “rude boys” giamaicani (quelli veri, quelli che sparavano e uccidevano con troppa facilità loro fratelli, pur essendo entrati pienamente nel folklore musicale giamaicano), e pur amando la musica genuinamente roots di Burning Spear, non mi ha nemmeno mai attratto il misticismo rastafari mentre lo stile degli anni Sessanta, i cappelli pork pie e trilby, e l’armamentario che forma il codice di abbigliamento prima dei mods, poi degli skinheads e infine dei nuovi rudi, “gli ska”, fans degli Specials e dei Madness dal 1979 in poi, insomma, quello stile, l’ho sempre trovato affascinante e capisco appieno perché anche gente che viaggia per i sessant’anni ancora oggi si veste in quella maniera nella vita di tutti i giorni o anche solo per andare a un concerto o raduno di vespe e lambrette. Direi proprio che “filoni” preferiti non ne ho mai avuti dato che ho sinceramente sempre percepito la musica Ska dai suoi esordi ad oggi come un un’unica cosa, un unico percorso che, per citare Aitken, è come un fiume che scorre raccogliendo influenze, trasformandosi, rinnovandosi ma sempre attorno a quella magia ritmica tra battere e levare che fa impazzire gli appassionati e divertire da matti i musicisti che la suonano. Ancora oggi alterno nei miei ascolti correntemente modernità e passato, lenti e veloci, cantati e strumentali, skinhead reggae e shuffle, Selecter e Soul Vendors, Marley e No Sports, Don Drummond e gli Hotknives: è la nostra musica, è ciò che mi fa stare bene. Posso però dirti che invece non ho mai apprezzato tutta la sterminata produzione di “version”, di dub, di dj e toast sui medesimi ritmi, ripetuti all’infinito, trovandoli ancora oggi di una noia mortale come la gran parte di tutto il digital reggae. Gusti.

Sergio Rallo di Skabadip con gli svedesi Liberator

Sergio Rallo con i Liberator, foto di Marco Carloni

Oggi che fai? In Come un Fiume – The Ska Faces ti abbiamo visto schermitore.

Oggi la mia professione è quella di avvocato civilista a Milano e sono una specie in estinzione, un “artigiano del Diritto”, nel senso che ho il mio Studio condotto fianco a fianco con mia moglie Elisa e sono geloso della mia indipendenza, evitando i mega studi legali che assomigliano a grosse imprese che disumanizzano il rapporto con i clienti. Non ho figli e ho un gatto nero di nome Zulù che sono da tempo tentato di fare a scacchi bianco neri. Da quindicenne mi appassionai alla Savate/Boxe Francese, un’antica e stupenda disciplina sportiva che unisce la classica boxe inglese ai colpi di calcio, l’unico sport da combattimento in cui si usano le scarpe ai piedi e che prevede il contatto pieno e che pratico e insegno ancora oggi. Il ring, anche frequentato non da professionista, insegna ad affrontare i propri limiti e paure e, posso assicurarlo, saper reagire a una aggressione è molto importante e a mio avviso dovrebbe essere insegnato a tutti e in particolare alle donne. Poi, come nelle vecchie sale d’armi francesi, ho affiancato alla Savate lo studio della scherma di bastone da passeggio (canne italiana) e del bastone a due mani ormai 18 anni fa, e da parecchi anni insegno anche tali discipline.

Se ti va, salutaci elencandoci un tuo podio di artisti o album cui sei particolarmente affezionato, e magari lasciaci anche una canzone.

Ti pentirai di questa domanda caro Gabriele, perché sarò, se possibile, ancora più prolisso! Sul mio personalissimo podio pongo ovviamente i Madness (si sa, il primo amore non si scorda mai) scegliendo come album Absolutely. Seguendo il percorso che tramite l’omonima canzone Madness mi condusse a scoprire chi era quel C. Campbell a cui era attribuito il pezzo, aggiungo Prince Buster e come album direi senza dubbio FABulous Greatest Hits, non nella originale versione in vinile con sole 12 tracce ma nella sontuosa versione CD che la Sequel Records inglese pubblicò nel 1993 con il doppio di canzoni. Rimanendo al tradizionale, tra Giamaica e Inghilterra, il mio cuore palpita per l’artista che ho avuto l’onore di incontrare più spesso negli anni ovvero Laurel Aitken di cui segnalo Rise and Fall, il vol. n. 1 delle raccolte dedicategli dalla Unicorn Records nel 1989 (e per cui non venne pagato), contiene alcuni dei suoi capolavori. Tra i miei preferiti di sempre non posso esimermi dal citare Justin Hinds & the Dominoes e la bellissima raccolta Peace & Love uscita esattamente venti anni fa per la Trojan, dove il trio è accompagnato da Skatalites, Supersonics e Baba Brooks’ Band che in particolare li accompagna nella esaltante originale versione di Botheration dove si può ascoltare il pulsante basso di Lloyd Spence, uno delle decine di misconosciuti “eroi” dello ska degli anni Sessanta. Lasciando “la tradizione” e i “padri fondatori”, passo agli Stati Uniti per confessare l’amore per i bostoniani Bim Skala Bim il cui omonimo album del 1986 (ripubblicato qualche anno dopo in Inghilterra come Boston Blue Beat) è tra i migliori dischi ska/punk post Two Tone, e per gli Scofflaws di cui l’album d’esordio omonimo del 1991 è tuttora tra i miei dischi più ascoltati con canzoni come Rudi Is Back o Going Back To Kingston e in cui è da annoverare la presenza di Victor Rice al basso, oggi sicuramente uno dei più affermati produttori di ska/reggae e dub al mondo. Finisco il “tour” americano del mio affollato podio con gli Hepcat e il loro spettacolare album di debutto Out Of Nowhere ai quali è attribuibile la responsabilità dell’ondata “neo tradizionale” scoppiata in California nella metà degli anni Novanta. Venendo un po’ più vicino a noi, in Europa l’inglese naturalizzato olandese Mark Foggo con i suoi Skasters rimane il più divertente interprete mondiale dello ska veloce, moderno e ironico sin dal 1980 e il suo album migliore è per me Couldn’t Play Ska. Scendendo da Nord a Sud i tedeschi No Sports col loro album d’esordio King Ska e The Frits (forse insieme agli svedesi Liberator i migliori “emuli” dello stile degli Specials) con il loro terzo Little Idiots sono stati parte integrante delle colonne sonore dei miei viaggi da universitario. Finisco, lo giuro!, andando dall’altro capo del mondo dove ci sono gli autori di altri due album che mi porterei sulla classica isola deserta, i Tokyo Ska Paradise Orchestra con Pioneers del 1993, loro quarto album, e gli Ska Flames con Wail’n Skal’m loro secondo lavoro mi pare anche questo del 1993.
Tanta ottima musica in soli dodici album, ascoltare per credere e ricordate: la musica migliora la vita ma lo Ska la rende anche molto più divertente.

 

The Ska Flames – Lost Two Heart

Baba Brooks – Shank I Sheck

Madness – House of Fun

Prince Buster – Too Hot

Laurel Aitken – Pussy Price

The Frits – Place in Town

Justin Hinds & the Dominoes – Fight Too Much

Burning Spear – New Civilization

Foto di copertina: Marco Carloni

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