Count Machuki e la nascita del toasting in Giamaica

Il periodo di Count Machuki

Una volta chiesi al signor Dodd di darmi il microfono. Lui me lo diede, così iniziai a provare le mie battute e Dodd ne rimase stupito. Ho quindi iniziato a provare le mie frasi sul sound system di Dodd, il Downbeat, ed anche lui mi suggerì alcune battute. Mi misi a ripeterle per tutta la notte quel sabato al Jubilee Tile Garden. Tutti ne furono colpiti. Bevvi quanto più alcol potevo quella notte.

Siamo alla metà degli anni ’50, nella Kingston dei sound system, dei boogie e dei rhythm’n’blues che arrivavano dagli Stati Uniti. A ricordare è Count Machuki, al secolo Winston Cooper. Stiamo parlando di colui che, secondo la tradizione più accreditata, è stato il primo toaster o, ancora più precisamente, l’inventore del toasting.

All’epoca i dj che lavoravano per i vari soundman erano dei veri e propri uomini di spettacolo che giocavano con la folla, la stuzzicavano, sfoggiavano i passi di danza più cool, movimenti diversi per ogni disco che girava sul piatto. Ma nessuno ancora aveva avuto l’idea di prendere in mano il microfonoRicorda Count Machuki: “C’erano volte in cui il brano che stava girando sul piatto aveva, secondo la mia opinione, un suono debole, così mi venne spontanea l’idea di aggiungere un po’ di vigore, un po’ di spirito: chicka-a-took chicka-a-took chicka-a-took. E notai che questo destava una certa attenzione nel pubblico.

Ma, dato che nella musica giamaicana praticamente tutti affermano di essere stati gli iniziatori, gli “originator” di tutto, andiamo con ordine, scaviamo in questa storia.

Continua lo stesso Count Machuki: “Mi iniziai ad appassionare alla musica da giovane. Avevamo due grammofoni in casa ed iniziai a provare passi di danza che avevo 15 anni. Quando lasciai la scuola decisi di non cercare un lavoro, perché la musica era diventata la mia ossessione. Capii che non volevo vivere nient’altro che di musica, ma in quei giorni l’unico mio guadagno, lo sapevo, sarebbe potuto essere quello di far stare bene la gente, renderla felice. A casa ascoltavo dischi di Ella Fitzgerald, Harry James, Lena Horne, Eddie Arnold, Count Basie, Duke Ellington e Charlie Barnett. Ma non mi chiedere da dove mia madre li avesse recuperati.

Count Machuki, un suo primo piano

Così, avendo molto tempo libero, gironzolando per la città iniziò ad entrare in contatto con i marinai americani che, tra le altre cose, importavano in Giamaica anche dischi. Un giorno si imbatté nel negozio di elettronica di Tom “The Great” Sebastien, fuori dal quale grosse casse sparavano il suono del blues americano, così si mise spontaneamente a ballare e, dato che gli si raccolse attorno una piccola folla di ragazzi incuriositi, non smise ed anzi prese a tornarci anche nei giorni seguenti.

Tom Sebastien, oltre al negozio, possedeva uno dei primi sound system di Kingston, con il quale organizzava delle dance. Per cui, avendo notato l’intraprendenza ed il carisma del giovane Count Machuki, lo ingaggiò come ballerino. “Poi, una sera al Forrester’s Hall, passai dal fare il ballerino al selezionare i dischi: me lo chiese Tom, perché doveva andare a prendere altro alcol per la festa dato che stava finendo. Quando tornò, si stupì credendo che stessi selezionando dischi che mi ero portato da fuori, ma in realtà stavo solo facendo suonare il lato B dei suoi dischi. Tutto il pubblico credeva che erano dei pezzi esclusivi e stava impazzendo per essi. Tutto nacque quella sera. Poi Tom si trasferì in periferia ed aprì un club, così io fui ingaggiato da Coxsone, che aveva bisogno di un nuovo selecter dato che ne aveva appena licenziato uno che gli aveva bruciato tre amplificatori. All’inizio il mio compito consisteva solo nello scegliere tra i dischi di Dodd e nel poggiarli sul piatto per farli suonare, poi iniziai a fare gli annunci di altre serate tra un pezzo e l’altro. Solo in seguito suggerii a Coxsone che, secondo me, era meglio rinforzare un po’ i pezzi usando il microfono, per distinguerci e perché, d’altronde, poteva sembrare che stesse suonando un jukebox.

Così, Count Machuki prese in mano il microfono ed iniziò a declamare qualche frase qua e là alla fine di un disco e prima che ne iniziasse un altro, introducendo l’artista, spiegando in breve quello di cui parlava la canzone o quello che era il suo messaggio, e quando il brano gli sembrava carente in qualche punto usava le sue abilità vocali per conferirgli un po’ di potenza e renderlo più interessante. “Era semplicemente jive talk dal vivo e la gente ne era contentissima!”.

Count Machuki in persona

Count Machuki

Questa forma primitiva, embrionale, di quello che si sarebbe e poi evoluto in toasting, si diffuse rapidamente anche negli altri sound system diventando una parte essenziale dell’esperienza della dancehall giamaicana, affermandosi nel corso dei decenni successivi con una poetica ed uno stile ben precisi. Ma negli anni ’50, il toasting non era altro che una serie di frasi fisse ed in rima, ripetute per tutta la sera quasi sempre identiche, imitando le espressioni dei dj di rhythm’n’blues e bebop delle radio nere-americane, nelle quali non importava tanto il contenuto o il senso in sé di ciò che veniva detto, ma come e quando veniva detto, dato che la capacità di parlare al momento giusto del brano avrebbe garantito l’eccitamento della folla e perciò che questa rimanesse a ballare nella yard.

Lo stile di Count Machuki era una sorta di scat rozzo e percussivo, infarcito di giochi di parole, di rime senza senso, di parole inventate sul momento, di onomatopee, di espressioni divertenti, di versi per marcare il ritmo ma anche di brevi commenti od esortazioni come “Dig it, man, dig it!”, “Come on, come on!” o “Have some mercy on me, baby!” per invitare la gente a ballare coinvolgendola in un gioco di botta e risposta, non dissimile dallo stile dei predicatori negli spiritual durante le celebrazioni nelle varie chiese cristiane. Col tempo il suo stile si affinò, anche con l’aiuto ed i suggerimenti del signor Coxsone, riuscendo ad inserire intere frasi tra un disco e l’altro, nelle quali, generalmente, si vantava in termini sbruffoni o decantava la dance nella quale si stava esibendo. 

Negli anni ’60 il suo modo guascone di fare toasting si arricchì con l’influenza di un altro grandissimo spaccone, il pugile nero-americano Cassius Clay (o Mohammed Alì, se preferite), che divenne talmente popolare in Giamaica, e tra i neri di tutto il mondo, che è oggi assurto ad una sorta di stato mitologico. Ciò che colpiva i giamaicani era il suo stile pulito ed agile (“Float like a butterlfy, sting like a bee”) e il suo rifiuto di chiudere gli occhi e la bocca davanti alle ingiustizie o alle prepotenze delle autorità. La sua maniera, durante gli incontri, di prendersi gioco dell’avversario con brevi frasi in rima, come “Archie Moore will go in four”, fu presto imitata dai ragazzi di strada e divenne uno dei marchi del toasting di Count Machuki.

Egli diventò talmente valente in quell’arte che, proprio con lui, per la prima volta, il dj iniziò a costituire un’attrazione a sé rispetto al sound system ed al soundman: “A volte le persone andavano nei negozi per comprare dei pezzi che avevano sentito durante una mia serata, ma quando andavano a casa e lo ascoltavano, finivano per riportarli indietro al negozio, perché non capivano che erano stati i miei interventi a rendere quei dischi così potenti durante la dancehall della sera prima!

Di lui ha detto King Stitt: “Mi ha insegnato un sacco di cose, sai. Dalla tecnica del toasting, a come scegliere bene i dischi, a come bisogna guardare il pubblico e comportarti con la folla mentre la facevi ballare.

E gli ha fatto, virtualmente, eco U-Roy: “Oh, Count Machuki, si, amavo andare ad ascoltarlo! Ogni volta che andavi a vederlo era come se non avessi mai visto qualcosa del genere prima. Quell’uomo sapeva come scandire le parole a tempo, non si accavallava alla musica quando parlava, in modo che potevi sempre sentire cosa stesse dicendo il cantante sul disco. Da quando lo vidi, decisi che volevo diventare proprio come lui.

Perciò, se lo hanno detto anche King Stitt e U-Roy, non possiamo non ammettere la veridicità delle parole di Count Machuki: “Gli altri hanno imitato quello che io ho inventato!”.

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