Jump blues, seme del reggae e colonna sonora dei primi sound giamaicani

Jump blues, seme del reggae e colonna sonora dei primi sound giamaicani

Una fase dalla quale non si può prescindere, parlando di musica giamaicana, è quella del jump blues. Espressione musicale, in verità, non autoctona dell’isola ma tipicamente nord-americana. Il jump blues ebbe il suo apice, pur nelle sue diverse evoluzioni stilistiche, tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima dei ’50 negli Stati Uniti. Ma proprio nel momento in cui in patria era in declino e veniva surclassato dal rock’n’roll bianco fu adottato come colonna sonora, fino ai primi ’60, delle nottate di Kingston animate dai dj e dai sound system.

Se da un punto di vista strettamente stilistico il jump blues era fondamentalmente una forma di blues più ritmata e veloce che mutuava in maniera talvolta determinante elementi del boogie e dello swing, nella sostanza rifletteva, al contrario degli stili dai quali derivava, la psicologia del nero d’America maturata nel corso e alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale.

Il contesto storico in cui nacque il jump blues

Alla fine del conflitto uno dei problemi scottanti negli Stati Uniti era quello della segregazione razziale. In particolar modo al sud i bianchi e i neri continuavano ad essere divisi in ogni attività quotidiana: le scuole, i negozi, i ristoranti, i cinema, i posti sugli autobus, tutto era rigorosamente separato.

La Seconda Guerra Mondiale era stata presentata dalla propaganda patriottica statunitense come la lotta delle nazioni libere e democratiche contro i regimi dittatoriali illiberali e razzisti. La stessa partecipazione dei neri nei ranghi dell’esercito fu molto più intensa rispetto alla Grande Guerra, ed anche se erano in larga parte limitati nelle negro units delle forze armate, il loro ruolo nelle celebrazioni per la vittoria non poté essere trascurato o minimizzato. Ciò avvenne in particolar modo dopo l’emanazione, nel giugno del 1942, dell’ordine da parte del presidente Roosevelt che proibiva la discriminazione razziale all’interno dell’esercito. Ed anche in coloro che non erano impegnati al fronte cresceva il senso di responsabilità e di partecipazione, che veniva inoltre consolidato dagli stipendi relativamente alti che si ottenevano lavorando nelle industrie dei vari rami del comparto bellico, che avevano ripreso a funzionare e a produrre ai ritmi paragonabili a quelli precedenti la depressione. Le popolazioni del sud ripresero quindi le migrazioni verso le città del nord e la nazione intera era impegnata in uno sforzo su larga scala, senza precedenti, nell’esercito, nella marina, nell’aviazione, nelle fabbriche: si aprivano nuove prospettive di vita, il benessere e le possibilità di lavoro ritrovate creavano un senso di coinvolgimento, oltre alla sensazione che gli anni tristi e dolorosi della crisi stessero ormai allontanandosi.

Sebbene nella vita giornaliera il sistema discriminatorio continuasse ad essere saldissimo, dopo la guerra, quello che era inesorabilmente cambiato era l’anima stessa della comunità nera che stava maturando un sentimento di orgoglio e di forza mentre la rassegnazione, musicalmente propria del bluesman, aveva cominciato ad essere sostituita dalla convinzione che si dovesse rendere possibile un cambiamento, perché la situazione fino ad allora tollerata in quanto inevitabile era ormai evidentemente inaccettabile.

Nascita e affermazione del jump blues

La “race music” di quel periodo, dopo gli anni ’30 e ’40 caratterizzati dalla rispettabilità borghese dello swing, iniziò un percorso teso a re-impossessarsi della propria identità, assumendo tratti meno melodici, ossia meno occidentali, come se il popolo del blues stesse provando a reagire alla levigatezza e all’ufficialità che si erano insinuate nella musica nera. Dato che, inoltre, i locali e le sale da ballo non riuscivano più a garantire la paga a tutti i musicisti delle big band, molte di queste si sciolsero o ridussero progressivamente l’organico recuperando contemporaneamente, dati i più ampi margini di espressione, elementi musicali dalla tradizione più sporca del blues. Ne erano esempio il piano boogie dei bordelli della fine del XIX secolo e la stessa componente spettacolare dell’esecuzione, fatta di frenesia, spesso di volgarità, di salti e urla sul palco. Questi modi di fare si imposero come un valore espressivo che garantiva a questa nuova generazione di artisti una separazione totale e inequivocabile sia dalla canzonetta bianca sia dalla patina di decoro dello swing.

Jump blues, seme del reggae e colonna sonora dei primi sound giamaicani

Louis Jordan

Questo nuovo stile, più tardi chiamato jump blues, emerse all’interno del settore più black della scena jazz, con la nascita di piccole big band che includevano dei cantanti di blues che utilizzavano sia la vecchissima tecnica dello shout, l’urlo, che risaliva ai tempi della schiavitù nei campi, sia anche il jive talkin’, il gergo pulsante delle strade e del proletariato urbano: pensiamo solo ad artisti seminali, in un senso o nell’altro, come Lionel Hampton, Joe Liggins, Illinois Jacquet e Cab Calloway.

La spettacolarità e l’eccesso assursero ad un ruolo importante in questa nuova ed eccitante corrente del blues: la sezioni fiati erano spesso l’elemento più importante e chiassoso della band. I sassofonisti ne erano i protagonisti assoluti: emblematico Big Jay McNeely che si rotolava per terra mentre suonava i suoi assolo o si faceva dondolare lo strumento tra le gambe in un gesto ostentatamente sessuale. Oppure Louis Jordan che lo faceva stridere o starnazzare come un’anatra. Tra i cantanti ricordiamo invece Big Joe Turner, Wynonie Harris e Amos Milburn: urlavano, ululavano e si dimenavano sul palco facendo spaccate ed altri generi di guasconate. I chitarristi, famosissimo T-Bone Walker, si facevano roteare la chitarra sopra la testa e si presentavano come dei sex symbol al pubblico femminile. I pianisti, tra i più celebri Rosco Gordon (di cui abbiamo già parlato qui) e Dave Bartholomew, davano ai brani un andamento sensuale, sporco, saltellante. Suoni e scene aspre, tribali, che ribaltavano l’immagine composta delle big band dello swing, nelle quali quasi tutti i musicisti del jump blues erano maturati professionalmente: fu il trionfo, ancora inconsapevole per i suoi stessi protagonisti, della devil’s music, dell’africanità, della tradizione rurale. Lo testimoniano l’uso costante del riff, delle percussioni martellanti, degli ottoni prepotenti e spesso anche delle voci più primitive e meno colte.

Jump blues, seme del reggae e colonna sonora dei primi sound giamaicani

Wynonie Harris

Alcuni critici hanno definito, a mio avviso del tutto pertinentemente, il jump blues come il “seme del reggae”: non la radice ma il seme. Non solo da un punto di vista meramente musicale, ma fors’anche, come abbiamo visto, culturale. Quello che è certo è che il jump blues, da musica da ballo diffusa dai sound system alla fine degli anni ‘50, fu una delle influenze più importanti, se non la decisiva, per la nascita di quella che potremmo considerare la via giamaicana al rhythm’n’blues, lo ska.

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