Tra jazz e memoria: Michael Blake e la storia della Komagata Maru

Tra jazz e memoria: Michael Blake e la storia della Komagata Maru

Con Fulfillment il sassofonista canadese Michael Blake volge lo sguardo a un vile episodio di razzismo: una vicenda occorsa un secolo fa, ma ancora oggi tristemente attuale.

Il 2016 è stato un anno significativo per Michael Blake. In pochi mesi il sassofonista canadese oggi di stanza a Brooklyn ha pubblicato due dischi dall’animo speculare, giacché entrambi scavano a fondo nel suo passato: Fulfillment, che usciva a marzo su Songlines Recordings, e Red Hook Soul, edito a ottobre da Ropeadope Records. Se quest’ultimo, tra composizioni originali e fresche reinterpretazioni ci regala un excursus attraverso i modelli di riferimento di Blake, il primo è invece un affondo nella storia del paese che gli ha dato i natali, un faccia a faccia con i fantasmi di un passato personale e collettivo al tempo stesso. Collettivo, perché prende le mosse da un episodio di vile razzismo che ha macchiato il primo Novecento canadese; personale, perché in quell’episodio, o meglio tra i maggiori promotori del quale, vi figura un lontano parente dello stesso Michael Blake. I fatti sono questi: nel 1914, giunta al porto di Vancouver, una nave da carico giapponese (la Komagata Maru, appunto) fu respinta dalle autorità canadesi facenti ricorso a leggi dichiaratamente esclusioniste. La nave, infatti, trasportava più di trecento richiedenti asilo provenienti dall’India Orientale. Un membro conservatore del Parlamento, H.H. Stevens, ebbe a dire: “Ho intenzione in tutte le occasioni di restare assolutamente saldo su questo grande principio – di un paese bianco ed una bianca British Columbia”. Quel lontano parente sarebbe proprio H.H. Stevens.

Tra jazz e memoria: Michael Blake e la storia della Komagata Maru

La Komagata Maru in una testimonianza fotografica dell’epoca

Fulfillment nasce in realtà nel 2014, quando l’associazione Barking Sphinx, col sostegno del British Columbia Arts Council, commissiona a Blake e compagni un concerto dedicato a quell’incidente di cui nessuno parla, da tenersi al Vancouver International Jazz Festival. Quindi non è che Michael Blake abbia d’un tratto sentito l’esigenza di espiare una colpa che non ha; è inoltre cresciuto in una famiglia progressista e il suo ricordo di Stevens è legato soltanto ad una vecchia fotografia.

Ma facciamo un passo indietro. Da quando, nella metà degli anni Ottanta, trova casa a New York, Michael Blake non fa altro che dedicarsi alla sua passione, ma il vero salto di qualità avviene nei Novanta, quando John Lurie lo accoglie tra le fila dei suoi Lounge Lizards. I Lounge Lizards sono un’istituzione del jazz meno ortodosso, essendo più che altro figli dell’iconoclastia no-wave: ascoltate l’eponimo debutto del 1981, per farvi un’idea. L’esperienza vale per Blake sia come trampolino di lancio, sia come attestato di qualità; da lì in poi saranno miriadi le formazioni da lui capitanate o in cui prende parte. Diverse le declinazioni: dal jazz venato di funk degli Slow Poke a quello aggraziato ed emotivo, suonato quasi in punta di piedi, di un disco come More Like Us dei Blake Tartare. E se Amor de Cosmos, col Michael Blake Sextet, va visto come un altro tassello decisivo, è a Control This (in duo col batterista Kresten Osgood) che dovete rivolgervi se avete intenzione di entrare in confidenza con l’altra faccia di questo straordinario sassofonista: quella legata alla pura improvvisazione, che nella fattispecie rimanda a un precedente importante (e musicalmente molto meno accessibile) come Interstellar Space, di fatto uno dei capitoli più ostici di sua maestà John Coltrane alle prese col free-jazz più radicale. C’è spazio anche per una formazione reggae-ska, la Gowanus Reggae & Ska Society, che all’attivo ha una bella rivisitazione di un disco leggendario, Catch a Fire di Bob Marley & The Wailers.

Ma è con il capolavoro Kingdom of Champa (1997, Intuition Records) che il più recente Fulfillment stringe un forte legame, essendo ambedue dei concept-album. Kingdom of Champa, forte della produzione di Teo Macero (già al lavoro con Miles Davis), è l’esordio solista di Michael Blake, una spontanea e appassionante lettura del suo viaggio in Vietnam. Lì Blake flirtava con la tradizione melodica vietnamita, mentre nel jazz sensuale e disinvolto di Fulfillment lo vediamo orbitare intorno al folklore indiano. Eppure sono tante le soluzioni indagate negli otto brani che vanno a comporre il disco. A Sea Shanty, in apertura, sarà una gioia per chi è solito visitare le pagine di questo blog, con i fiati che nel bridge centrale abbozzano una breve figura ska. La delicata voce di Emma Postl – presente sia qui che in The Ballad of Gurdit Singh – dà un tocco squisitamente pop, un sentimento che rimane intatto persino durante l’incedere vorticoso di Perimeters. Il brano si perde tra i mille rivoli di un’improvvisazione giocosa, testimone di un approccio ludico e ottimista che – merito di una stralunata frase di sintetizzatore – ricorda gli indecifrabili ibridi di un altro gigante del jazz contemporaneo, Rob Mazurek. E come non emozionarsi davanti al dialogo che il sax soprano di Exaltation instaura con una varietà di strumenti, tra cui tabla e chitarra elettrica?

Proporre e approfondire un disco come Fulfillment, oggi ha forse più senso di ieri, visto il ruolo cui il Canada – almeno stando alle parole del primo ministro Justin Trudeau – sembra voler ambire in prospettiva prossimo-futura: accoglienza, multiculturalismo, appoggio immediato nei confronti di chi, a volto scoperto, sta già subendo il nazionalismo spietato dell’amministrazione Trump e di una white-supremacy che ha tutta l’aria di volersi nuovamente imporre. Già un’eminenza come Marshall McLuhan aveva visto nel suo Canada il punto di partenza per una nuova e certamente più dinamica concezione di nazionalità, come sottolinea questo interessante articolo in merito recentemente pubblicato dal Guardian.

In tal senso è utile far caso a quanto Michael Blake dichiarava un anno fa, in un’intervista pubblicata dalla stessa Songlines: “[…] volevo raccontare la storia da diversi punti di vista e mostrare quanta strada abbiamo fatto. Ma poi l’attuale crisi dei rifugiati è entrata in gioco e ciò sicuramente ha influenzato la mia coscienza, proprio mentre stavo scrivendo la musica. […] La maggior parte delle persone non ha mai sentito parlare del Komagata Maru e probabilmente non lo farà mai. Quindi penso che i testi possano ampliare la portata della musica ed aumentare la consapevolezza. Per me un brano come ‘The Ballad of Gurdit Singh’ coglie quel momento nel porto di Vancouver, quando i passeggeri non vennero certamente accolti a braccia aperte”.

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